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Mobilità elettrica forzata, De Rosa: "Così l’Europa rischia il suicidio green"
Comunicato Stampa
14 novembre 2025 09:25
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SALERNO. Mobilità elettrica in Europa: dalle nuove tasse sulle auto a batteria alla necessità di libertà tecnologica e pragmatismo industriale Abbiamo chiesto un commento, al riguardo, al Cavaliere Domenico De Rosa, CEO del Gruppo Smet ed opinion leader in economia internazionale.

Cavaliere, in una grande capitale europea si è deciso che chi possiede un’auto elettrica, oltre al bollo, pagherà una tassa specifica per “rimpinguare l’Erario”. L’elettrico, da prodotto super agevolato, diventa nuovo bancomat fiscale. Che cosa le dice questo cambio di rotta? "Mi dice che stiamo uscendo dall’ubriacatura ideologica e rientrando nella realtà dei conti pubblici. Per anni si è venduta l’idea che l’auto elettrica fosse quasi un oggetto “fuori dal sistema”: niente accise, bonus, corsie preferenziali. Adesso scopriamo l’ovvio: se sposti milioni di veicoli dalle pompe di carburante alla presa elettrica, lo Stato perde gettito e va a riprenderselo da qualche altra parte. Il paradosso è crudele. Prima spingi famiglie e imprese a cambiare auto in nome della “salvezza del pianeta”, poi, quando gli incentivi non bastano più, le colpisci di nuovo con nuove tasse. È la prova che, se la mobilità elettrica è imposta come dogma e non costruita su basi economiche solide, diventa un gigantesco gioco delle tre carte: l’impatto ambientale lo discuti, il conto lo pagano sempre gli stessi. Per un imprenditore come il Cavaliere De Rosa questo è semplicemente inaccettabile".

Un grande industriale ha parlato di “suicidio green” europeo. Lei condivide questa definizione così drastica? "La parola è forte, ma coglie un punto di verità. Il “suicidio” non sta nel voler ridurre le emissioni – obiettivo sacrosanto – ma nel metodo con cui l’Europa sta provando a farlo. Si è scelto di trasformare una tecnologia, l’auto elettrica a batteria, in un totem. Una data magica, il 2035. Un’unica ricetta valida per tutti, dal Nord al Sud, senza curarsi di infrastrutture, potere d’acquisto, mix energetico. Nel frattempo, la Cina presidia miniere, raffinazione e filiera delle batterie; gli Stati Uniti usano sussidi e politiche industriali come strumenti di potenza. Noi ci auto-imponiamo regole che rischiano di consegnare il nostro mercato a chi produce fuori dall’Europa, spesso con standard ambientali e sociali meno stringenti dei nostri. Se non è un suicidio strategico, poco ci manca. Io vedo un paradosso evidente: ci chiedono di “salvare il pianeta” distruggendo la competitività delle nostre imprese e della nostra logistica. È un lusso che l’Europa non può permettersi".

I difensori della linea dura ribattono che senza una forte spinta regolatoria la decarbonizzazione non parte. Dov’è, secondo lei, l’errore di impostazione? "L’errore è confondere l’obiettivo con lo strumento. Ridurre le emissioni è l’obiettivo. Il motore elettrico è uno degli strumenti possibili, non l’unico né sempre il migliore. Oggi la politica europea ha ribaltato l’ordine logico: non ti chiede “quante emissioni riduci”, ma “che tecnologia usi”. Così rischiamo di sostituire un’auto con un’altra auto senza cambiare davvero il sistema: reti elettriche fragili, produzione di energia non sempre pulita, infrastrutture di ricarica insufficienti, filiere logistiche non adeguate. E intanto trascuriamo i grandi nodi: trasporto pesante, marittimo, aviazione, industria hard-to-abate. Una transizione sensata parte da dove si abbatte più CO₂ al minor costo per la società. Invece stiamo concentrando energia politica sull’oggetto più visibile – l’auto privata – perché è quello che fa più rumore mediatico. Ma il clima non lo salvi con le fotografie delle colonnine: lo salvi con i numeri, con la realtà dei cicli industriali e con le scelte quotidiane che il Cavaliere vede su strade, porti e terminal".

Le immatricolazioni elettriche crescono, eppure i target fissati non vengono centrati e già si parla di diluire gli obiettivi nel tempo. Che cosa rivela questo scarto fra piani e realtà? "Rivela che la realtà non si piega ai comunicati stampa. Il cittadino non è un nemico della transizione: è un soggetto razionale. Guarda il prezzo d’acquisto, il valore residuo, i tempi di ricarica, la rete di colonnine nel suo quartiere, la bolletta. Se la somma non torna, non compra. L’industria, dal canto suo, è schiacciata. Deve investire miliardi in piattaforme elettriche, gestire lo spegnimento graduale dei motori tradizionali, affrontare la concorrenza di produttori extraeuropei che sbarcano sul nostro mercato con vetture aggressive nel prezzo. E, come se non bastasse, vede che anche dove l’elettrico prende piede, i governi iniziano a introdurre tasse specifiche per recuperare il gettito perso sui carburanti. Il messaggio implicito è devastante: qualunque cosa tu faccia, ti troverò e te lo farò pagare. Non è così che si costruisce fiducia in una transizione, è così che la si rende socialmente esplosiva. Il Cavaliere De Rosa lo percepisce ascoltando autotrasportatori, famiglie e PMI: cresce la sensazione di essere cavie fiscali, non protagonisti del cambiamento".

Che ricadute vede per un Paese come l’Italia, con una filiera automotive storica e un parco circolante vecchio? "Per l’Italia questa impostazione è una doppia trappola. Sul lato produttivo rischiamo una desertificazione industriale. Stabilimenti, indotto, competenze costruite in decenni sulla meccanica di precisione vengono svalutate in nome di un modello che, ad oggi, non controlliamo né sulle materie prime né sulle tecnologie chiave. Sul lato sociale c’è un altro problema enorme. Abbiamo milioni di auto con più di dieci anni, famiglie che fanno fatica anche solo a pensare all’acquisto di un’auto nuova. Se imponi standard che di fatto obbligano a comprare un’elettrica molto più costosa, o resti fuori dai centri, stai creando una frattura tra chi può permettersi la “mobilità certificata” e chi viene spinto ai margini. E quando poi arrivano notizie di nuove tasse pensate proprio per i veicoli che erano stati presentati come “salvifici”, il messaggio è chiaro: la transizione non è un patto, è una trappola. Così alimenti rabbia, non consenso. Per il Cavaliere, che vive tra imprese e territorio, è evidente che senza equità sociale la transizione ecologica diventa instabile anche politicamente".

Se non l’elettrico forzato per decreto, quale strada propone? "Propongo una cosa che sembra rivoluzionaria solo perché ce ne siamo dimenticati: neutralità e libertà tecnologica. Le istituzioni fissano il traguardo – riduzione delle emissioni, qualità dell’aria, sicurezza energetica – e poi aprono la competizione fra soluzioni: motori termici di nuova generazione alimentati con carburanti low o no carbon, ibridi evoluti, elettrico dove ha senso, idrogeno, biocarburanti avanzati per il trasporto pesante e marittimo. Non ti premio perché hai una batteria, ti premio perché dimostri, numeri alla mano, che riduci più CO₂ rispetto alle alternative a parità di costo per la collettività. È un cambio di metrica: non tecnologia preferita, ma emissione evitata. Questo permetterebbe all’Europa di valorizzare i suoi punti di forza – motori efficienti, chimica, materiali, ingegneria – invece di buttare tutto alle ortiche sperando di rincorrere altri sulle batterie. E consentirebbe a famiglie e imprese di adottare soluzioni graduali, compatibili con i propri bilanci, senza essere costrette a salti nel buio. È la linea che considero l’unica davvero sostenibile".

Che cosa chiederebbe oggi, in concreto, ai decisori europei e nazionali? "Tre cose molto chiare. Primo: rimettere mano alle scadenze rigide. Le date non possono essere tabù. Devono diventare condizionate a verifiche periodiche su occupazione, infrastrutture, sicurezza energetica, equilibrio dei conti pubblici. La transizione deve essere rivedibile alla luce dei fatti, non tenuta in piedi per orgoglio politico. Secondo: basta col pendolo incentivi–stangate. Serve un quadro fiscale stabile, comprensibile, che non trasformi i cittadini in cavie di laboratorio. Chi investe in una soluzione più sostenibile non può vivere con la paura che domani quella stessa scelta diventi l’ennesimo bersaglio di nuove imposte. Terzo: riportare la competitività al centro. Ogni norma sulla mobilità dovrebbe passare un test semplice: rende l’Europa più forte o più dipendente da altri? Se aumenta la dipendenza da filiere esterne e distrugge posti di lavoro interni, non è una politica green, è un errore strategico travestito da virtù ecologica. Solo tornando a pragmatismo, libertà tecnologica e centralità dell’impresa potremo costruire una transizione che funzioni davvero: per il clima, per l’economia e per le persone che ogni giorno devono mettere in moto la propria auto per vivere e lavorare".



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