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Bufera Volkswagen e diktat elettrico, De Rosa: "Così l’Europa rischia di spegnere la sua industria"
Comunicato Stampa
21 novembre 2025 09:15
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SALERNO. Oltre 35mila esuberi annunciati dal gruppo di Wolfsburg, tensione su tutta la filiera automotive. Il Cavaliere Domenico De Rosa avverte: “Non è un temporale passeggero, è l’effetto di scelte politiche sbagliate sull’auto e sull’energia”.

Cavaliere De Rosa, che cosa le dice la notizia di decine di migliaia di esuberi in Volkswagen entro il 2030?  "Mi dice una cosa semplice e drammatica: la più grande industria europea, l’automotive, sta pagando il conto di decisioni politiche prese a Bruxelles senza calcolare l’impatto industriale. Se un colosso come Volkswagen parla di 35mila posti di lavoro in meno non è un incidente di percorso, è il segnale di un modello che non regge: costi energetici altissimi, concorrenza cinese aggressiva, mercato americano più flessibile e, in mezzo, l’Europa che si auto-impone il diktat elettrico come se fosse l’unica via possibile".

Quindi per lei non è solo una crisi aziendale, ma il sintomo di qualcosa di più grande? "Esatto. Volkswagen è solo il termometro. La febbre ce l’ha tutto il sistema industriale europeo. Da anni si caricano sui costruttori obblighi normativi sempre più stringenti, scadenze rigide sulle emissioni, investimenti forzati sull’elettrico a batteria, mentre energia e materie prime costano più che in Cina e negli Stati Uniti. Alla fine succede una cosa quasi banale: si taglia dove si può, cioè sul lavoro. Ma quei numeri non restano chiusi in Germania: si propagano lungo tutta la filiera, fino alle PMI e alla logistica dei Paesi come l’Italia".

Quanto deve preoccuparsi l’Italia, che è fornitore e piattaforma logistica di molti gruppi tedeschi? "Moltissimo. Quando un costruttore annuncia esuberi e riduzione di capacità, dietro c’è un’onda lunga: meno componenti ordinati, meno trasporti, meno servizi. Le nostre aziende che lavorano per l’automotive tedesco vivono di volumi; se i volumi calano, i margini scompaiono. L’Italia rischia un effetto “doppio schiacciamento”: da un lato subiamo le scelte di gruppi stranieri che riducono gli investimenti, dall’altro applichiamo in modo rigido norme europee che rendono più caro produrre e muovere merci. È un combinato disposto esplosivo per occupazione, logistica e territori".

Nel dibattito pubblico si parla sempre di Cina, Stati Uniti, caro energia. Che ruolo ha davvero il diktat elettrico in questa crisi? "Ha un ruolo centrale. Non perché l’elettrico in sé sia “il nemico”, ma perché è stato trasformato in un dogma. L’Europa ha detto all’industria: “Entro una certa data l’auto termica muore, tutto il resto si vedrà”. È una scommessa politica scaricata sulle imprese e sui lavoratori. Nel frattempo la Cina finanzia pesantemente le proprie tecnologie e controlla le filiere delle batterie; gli USA attraggono investimenti con incentivi e energia più competitiva. Noi, invece, obblighiamo le nostre aziende a correre a ostacoli, con regole che cambiano spesso e infrastrutture insufficienti. È ovvio che qualcuno, prima o poi, non regge e taglia".

Molti difendono questa strategia dicendo che “la transizione ecologica non si ferma”. Come risponde? "La transizione ecologica non solo è giusta, è inevitabile. Il punto è come la si fa. Se si trasforma in un esercizio ideologico, distruggiamo capacità produttiva senza ridurre davvero le emissioni globali. Se chiudiamo fabbriche in Europa per poi importare veicoli e componenti prodotti con standard ambientali peggiori altrove, abbiamo perso due volte: lavoro e ambiente. Io non chiedo di tornare indietro, chiedo una cosa molto moderna: neutralità tecnologica. Lasciare convivere più soluzioni – elettrico, ibrido, biocarburanti, idrogeno – e far decidere al mercato, agli ingegneri e ai consumatori chi vince, non ai decreti".

Da imprenditore della logistica, che cosa vede nei prossimi anni se non cambiano le regole? "Vedo una filiera sempre più fragile. Meno produzione significa meno flussi da gestire, meno investimenti in mezzi, porti, interporti. La logistica vive di continuità e volumi: se l’industria dell’auto si contrae, intere aree del Paese perdono treni, navi, autotrasporti. E quando una catena logistica si svuota non è facile riempirla di nuovo. Il rischio concreto è che l’Europa diventi un grande mercato di consumo, dipendente da tecnologia e prodotti altrui. Per un continente che è nato come potenza manifatturiera è il segno di un suicidio industriale ben avviato".

Cosa dovrebbe fare, allora, l’Europa di fronte alla “bufera Volkswagen”? "Prima di tutto riconoscere che non si tratta di un episodio locale, ma di un allarme di sistema. Poi aprire un tavolo vero – non simbolico – tra istituzioni, industria, sindacati e logistica per ridisegnare la traiettoria della transizione. Servono tre mosse chiare: abbassare strutturalmente il costo dell’energia per chi produce in Europa, introdurre una vera neutralità tecnologica nei target sulle emissioni e proteggere le nostre filiere strategiche da dumping eccessivo. Altrimenti continueremo a leggere titoli sui giornali su nuovi tagli, nuove delocalizzazioni e nuove “buffere” industriali".

Che messaggio sente di dare oggi ai lavoratori e agli imprenditori italiani che leggono queste notizie con angoscia? "Dico che hanno ragione ad essere preoccupati, ma non devono rassegnarsi. Il futuro industriale non è scritto, dipende dalle scelte che faremo adesso. Gli imprenditori devono continuare a investire in efficienza, innovazione e competenze; i lavoratori devono pretendere di essere parte del confronto, non solo destinatari dei licenziamenti. Alla politica, italiana ed europea, dico invece una cosa secca: smettiamo di usare l’industria come un laboratorio ideologico. Senza fabbriche non c’è logistica, non c’è occupazione, non c’è coesione sociale. E senza una grande industria dell’auto, l’Europa smette di essere una potenza, e diventa solo un grande showroom di prodotti altrui".



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